L’antico pellegrino viveva un'esperienza religiosa e al contempo culturale di particolare valore. Raggiungere il santuario era lo scopo ultimo, ma questo consentiva di vivere una serie di esperienze che aprivano lo sguardo e allargavano gli orizzonti. Pellegrinaggio e cultura non erano contrapposti, ma sintetizzati in una visione armonica della vita che favoriva lo sviluppo e la crescita personale. Curiosità e piacere di conoscere il mondo rientravano nella normale aspirazione di chi iniziava il pellegrinaggio. A sostenerlo nella fatica e nell'impegno del viaggio, oltre che davanti ai pericoli, erano certamente motivazioni religiose, che tuttavia non gli impedivano di immergersi in profonde esperienze pienamente "culturali", quali la conoscenza di costumi, modi di vivere e di pensare tra loro diversi anche se accomunati dalla fede in Gesù Cristo.
Il viaggio conservava per lui il particolare valore religioso, che racchiudeva in sé i tratti peculiari della fede cristiana - la carità, la solidarietà, la comprensione della vita come un passaggio attraverso questo mondo, nel quale rimaniamo, per dirla con le parole dell'apostolo Pietro, "stranieri e pellegrini" (1 Pietro, 2, 11) - ma il pellegrino era anche un uomo fortemente curioso, attento a tutto ciò che incontrava e desideroso di imparare. In altri termini, era un personaggio che ammirava oggetti sulle bancarelle dei mercati, si incantava davanti a musici e giullari, sostava nelle fiere e ascoltava racconti e leggende di vario genere. Così, insieme ai miracoli dei santi, imparava anche a conoscere le grandi gesta di Carlo Magno, di Orlando e dei paladini le cui tombe trovava sul suo cammino.
Non si dimentichi che questo pellegrino osservava come si costruivano le chiese e, spesso, prestava la propria opera in cambio di vitto e alloggio; nello stesso tempo, però, vedeva come si tingeva la lana e si intrecciavano i vimini, come si forgiava il ferro e si salava la carne, come cambiava, a seconda delle stagioni, l'abbigliamento delle popolazioni che incontrava o come si allevavano animali che non conosceva.
In una parola, il pellegrino imparava come si organizzavano le corporazioni e i comuni, come si strutturavano i mercati e le fiere, per quali vie si trasportavano i carichi di spezie prelibate che giungevano dall'Oriente o i prodotti in pelle provenienti dai Paesi nordici. Diventava così, suo malgrado, testimone e interprete, protagonista di una trasmissione di tradizioni e costumi, fondamenti basilari di ogni cultura.
La relativa calma della sua casa, del suo villaggio e della sua città veniva turbata da un flusso di conoscenze, informazioni e linguaggi, che suscitavano una sete insaziabile di conoscenza. Eppure, proprio questo suo porsi come pellegrino attraverso i vari Paesi che percorreva costituiva il punto di partenza per la formazione di un'identità che andava al di là di quella personale, per realizzarsi come fenomeno culturale che si sarebbe stabilizzato nel corso dei secoli. In qualche modo, avveniva che il pellegrino entrasse a far parte di una "società" che travalicava la sua appartenenza territoriale e linguistica per costituire una condivisione di vita concreta. Sentimenti, segni di identificazione, interessi e necessità diventavano un bagaglio comune, un tutt'uno facilmente riconoscibile da chi avesse vissuto la stessa esperienza che andava a formare, di fatto, una civiltà di appartenenza.
Insomma, il pellegrino - italiano o fiammingo, greco o scandinavo, ispanico o irlandese che fosse - si riconosceva in un'unica identità culturale che non teneva conto della nazionalità né della condizione sociale né della lingua. Ciò che accomunava non era una regola scritta, ma un modo di essere, l'assunzione di consuetudini che si radicavano e di comportamenti che si trasmettevano creando una solida tradizione. Quel tipo di tradizione che sta alla base di ogni genuina storia, di ogni cultura che voglia essere originale e
senza la quale non si può capire il presente.